di Giancarla Codrignani
a proposito dell’articolo di Eletta Elisabetta Santori
“Appunti per un pensiero de-genere”, contro le derive s-grammaticali del politically correct”
Sono così tante le pubblicazioni che “si debbono” leggere, che spesso cose importanti vengono accantonate per un “dopo” che si fatica a trovare. Nel numero 2/2017 mi era sfuggito un articolo (non evidenziato in copertina) di Eletta Santoni sul “pensiero de-genere” di presunte sgrammaticature del “linguaggio della differenza”.
Riconosco, circa il Gender fair language e il Politically Correct, che alcune insistenze nel reiterare le varianti di genere sono indugi scritturali faticosi. Possiamo quindi discuterne senza contrapposizione: la lentezza nella comunicazione non dà efficacia alla ragion d’essere della convenzione antisessista, per vago convincimento che, “teoricamente”, nessuno creda di “pensare” ad escludere il femminile dal significato. Anche la Gran Bretagna, che lanciò le innovazioni correttive, ha abbandonato le diluizioni hi/she, his/her, ecc.. ogni due righe, adottate per eliminare equivoci dal neutro convenzionale escludente. Che resta linguisticamente fondante: mi ha sempre impressionato il dispendio di parole dell’evangelista Matteo che nomina “la madre dei figli di Zebedeo”, circonlocuzione che svela una rimozione abituale dei nomi femminili forse nemmeno memorizzati. Il patriarcato è un principio indiscusso di quasi tutte le civiltà che ha dato fondamento a simboli, costumi, filosofie e intriga ancora il pensiero (e, siccome pensiamo per parole, in primis il linguaggio).
Tuttavia questo non implica che le questioni di genere siano definitivamente irrilevanti ai fini della precisione “grammaticale” delle parole, se, ragionando di linguaggio, siamo obbligati a distinguere la morfologia dalla semantica. Anche perché personalmente non sarei assolutamente contenta di essere “un individuo-donna”, come assume per sé Elisabetta Santori: credo di essere – e di dover essere – identificabile sempre come una donna, sia in quanto studiosa o in quanto ex-parlamentare (per l’esattezza ex-deputata) e non ho mai pensato che “sei come un uomo” sia un complimento. Non è meno offensivo dello sguardo che ti spoglia.
Il linguaggio è, infatti, espressione umana che, per essere comunicativa, non si contenta delle determinazioni sincroniche: le sorprese dell’evoluzione non sono poche, soprattutto perché, nel tempo, è vero che vince l’uso. Basta pensare agli accenti: diciamo “clessìdra” e non clèssidra, io “vàluto” una moneta, che però resta una valùta. Le trasformazioni – che sarebbero “errori” – hanno sempre una ragion d’essere e perfino un mostro come “io andiedi” in persone poco scolarizzate, riconduce all’analogia che fa dipendere “andare” da “dare”. Invece non è in alcun modo giustificabile che si possa definire ministro o sindaco con la desinenza in-o una donna: il nome concreto non designa la carica, ma la persona, che se è donna ha diritto all’evidenza allo stesso modo con cui il maschile designa la persona-uomo. Basta pensare al participio sostantivato di “governare” che se designa la cancelliera Merkel come “una governante”, non genera più un’immagine di potere politico, ma domestico.Non ci dovrebbe essere, dunque, ragione di evocare – come fa l’articolo in questione – per giunta con un’ironia misogina e un po’ classista, lo “zinale a bardare una questora” o una delle mostruosità inventate da Mary Shelley per esorcizzare una “mammellata architetta”,
In ogni caso la morfologia risponde a logiche che non sono opinabili: se infatti parlo di “generi” da femminista, introduco un criterio interpretativo che riguarda la semiologia e la storia della lingua, mentre, se si tratta di morfologia, rimando alla prima elementare quando la maestra insegna che i generi sono due, maschile e femminile, ed esclude il neutro. Infatti quando si registra all’anagrafe un nuovo nato il nome che viene scritto è irrimediabilmente o Mario o Maria. Fortunatamente nel nostro tempo si stanno eliminando pregiudizi e ipocrisie che attribuivano la sessualità “per natura” deterministicamente al modello etero. Tuttavia l’analisi logica può piacere o non piacere, ma è la sola logica formale esistente e ad essa si conforma la morfologia dell’italiano scolastico.
Detto questo, poiché l’aspetto sincronico non comprende il mutare dei significati nel mutare delle situazioni, bisogna ricorrere alla storia. La storia del linguaggio, a proposito del trasformarsi dei significati (e dei pregiudizi), registra modalità espressive che per comodità eravamo soliti chiamare “da caserma” (una volta non ospitavano “le soldate” e “le ufficiali”). Per esempio, ancora usano definire l’omosessualità con tipologie che rimandano alla tradizionale “devianza”, al peccato mortale delle religioni, ma che ancor oggi in molti paesi sono registrate nel codice penale. E’ sperabile dunque che la parola “frocio” cada in disuso perché incivile. Infatti, mentre è impossibile concettualmente che la lingua inventi nuovi generi morfologici, le parole si inventano, cambiano significato o anche si estinguono perché davvero sono vita.
Tutt’altra faccenda il caso del “femminile” secondo la linguistica generale: le difficoltà semantiche, non essendo originarie, rivelano la profondità del rapporto gerarchico che inizia proprio a partire dalla definizione dell’uomo e dalla donna e dalla implicita gestione delle asimmetrie di potere a partire dalla comunicazione verbale. Se qualche giornalista usa ancor oggi scrivere che Laura Boldrini è la “presidentessa” della Camera, potrà certamente appellarsi alll’uso, ma “presidente” resterà sempre un participio invariabile. Qualcuno obietterà che allora non si dovrebbe dire nemmeno “studentessa”. Infatti. Sovviene appunto la storia che fa memoria di una concessione ottocentesca indulgente al genere femminile e spiega che “studente” – participio sostantivato del verbo studiare – era nato in regime di diritto allo studio esclusivo per i maschi: quando l’istruzione venne concessa anche alle ragazze, queste diventarono – quasi un’eccezione – “studentesse”. La storia della lingua può essere spesso divertente se si tiene in conto l’interpretazione semiologica: il suffisso che connota “dottor-essa”, “professor-essa” qualche lustro fa il Devoto Oli (nel caso specifico di “deputatessa”, che si era sentito dire perfino da qualche padre costituente) lo definì “offensivo”; curiosamente gli archivi documentano che il card. Lambertini, sostenitore del diritto delle donne alla cattedra, in pieno Settecento definiva “dottora” Laura Bassi, che si dice fu maestra di Spallanzani. Domanda: non basterebbe dire che fu maestra dell’Ateneo bolognese? Elisabetta Santori preferirebbe dire “maestro”, non fosse che giustificherebbe l’assenza dalle cattedre di donne che pure studiavano, insegnavano e pubblicavano fino al secolo XVIII.
Siccome la “questione di genere” avanzata dalla filosofia femminista fornisce alla semantica argomentazioni che riguardano i diritti (anch’essi “di genere”), non in funzione ideologica, ma per risarcire la discriminazione che, proprio nel linguaggio, è diventata concettuale anche per molte donne, varrebbe la pena che nella suddetta prima elementare le maestre spiegassero che, se i nomi in -o al femminile escono in -a, avvocato “fa avvocata”, e che, se si dice ministro, “si deve” dire “ministra”. Altrimenti i bimbi, che debbono imparare che cosa sia la coerenza, per convenzione non dovrebbero accettare che la loro insegnante fosse detta “maestro”: infatti vedono prima di tutto che è una donna, come la loro mamma, che non è confondibile con il babbo, al quale però è uguale sia secondo la semantica che secondo la Costituzione, anche se non ancora per il codice che la considera “persona” per annullare il valore del “genere in sé”, preferito sempre “neutro”, salvo doverlo evocare per le leggi sulla maternità o sull’aborto, di fatto per negarle il corpo.