Scritto da Alessandra Allegrini domenica 08 gennaio 2006
Le ricerche di Equal Portico hanno indagato la relazione tra lavoro e ICT, che riflette un contesto esistenziale e sociale in cambiamento in un’ottica di crescente femminilizzazione del mercato del lavoro.
il lavoro nelle ICTLe trasformazioni dell’economia produttiva e del lavoro, prima di tutto, descritte e caratterizzate dal passaggio da un modello socio-economico fordista ad uno postfordista e che coinvolgono diversi fattori, tra cui particolare rilievo ha la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Molti gli intellettuali e le intellettuali che hanno analizzato i mutamenti socio-economici-culturali attraverso questa lente di lettura, mostrando come la rivoluzione della tecnologia IC possa essere il punto di partenza per l’analisi della complessità cosiddetta “globale” della nuova economia, società e cultura oggi in fase avanzata di costituzione. Tra questi, Manuel Castells, che ne “La Nascita della società in rete” esplora e descrive alcune caratteristiche essenziali del paradigma della tecnologia IC, considerato rivoluzionario quanto in epoca moderna lo è stato quello delle tecnologie meccaniche della rivoluzione industriale.
Tra gli aspetti caratterizzanti queste trasformazioni, elenco velocemente: la flessibilità del mercato del lavoro con la crescente individualizzazione e precarizzazione del lavoro, insieme all’emergere di nuove forme di lavoro (le cosiddette forme di lavoro “atipico”, ovvero “il lavoro autonomo di seconda generazione”), la progressiva crescita dei servizi all’impresa e, soprattutto oggi, alla persona, l’entrata della comunicazione nella sfera della produzione ovvero la natura spiccatamente informazionale e comunicativa quale tratto distintivo dei diversi processi lavorativi. Quest’ultimo aspetto, connesso alla diffusione delle tecnologie IC, è stato descritto, per esempio, da Zanini e Fadini, in Lessico Postfordista che ne hanno parlato come di “una fatica linguistica preponderante tutti i sistemi produttivi, materiali e immateriali che siano”, oppure da Christian Marazzi che sottolinea che il lavoro è sempre più descrivibile come un insieme di atti comunicativi e, di conseguenza relazionali, e necessita di cooperazione a mezzo di comunicazione. C’è chi, e cito Sergio Bologna, a questo proposito ha parlato di una “civiltà del lavoro relazionale”.
Ma c’è un altro aspetto centrale di questo cambiamento, che riguarda direttamente le donne, ed è descritto e etichettato come un processo di “femminilizzazione del mercato del lavoro”: le donne, si vuole indicare con questo termine, sono entrate nel mercato del lavoro e la loro presenza aumenta numericamente in diversi settori professionali. Il termine, come è noto, non riguarda solo la sfera produttiva delle società in cui viviamo ma, più in generale, le sfere pubbliche e politiche dell’esistenza umana. In questo processo, inoltre, le donne che partecipano paritariamente con uomini alla cittadinanza pubblica e lavorativa, portano con sé sguardi, saperi, modi di collocarsi differenti. Il termine “femminilizzazione” ha una seconda, importante, accezione: indica un divenire femminile del lavoro in ragione del fatto che tutti quei valori, aspetti, caratteristiche, requisiti prima confinati nella sfera privata-riproduttiva dell’esistenza, sono diventati parte della sfera produttiva dell’esistenza arrivando a ridefinirla: relazione, comunicazione, soggettività sono oggi all’opera nella razionalità produttiva dell’economia postfordista e stanno modificando ciò che conta come produttivo.
In questo processo i cambiamenti innescati dalle tecnologie IC hanno ovviamente un ruolo centrale perchè enfatizzano l’entrata della comunicazione nella razionalità produttiva, quel lavorare comunicando (per citare di nuovo Christian Marazzi) che è diventato parte essenziale, prerogativa dei modelli organizzativi e produttivi della nuova economia, ma non solo per questa ragione. Come è stato sottolineato da diverse autrici, tra cui in modo particolare Adele Pesce, le nuove tecnologie permettono l’apertura di nuovi percorsi professionali, sviluppano e necessitano di nuove competenze che si situano nell’incrocio tra percorsi tecno-scientifici e percorsi umanistici, proprio quei percorsi che distinguevano rigidamente fino a qualche decennio fa tra scienze hard e scienze soft, le prime patrimonio maschile, le seconde connotate, soprattutto in termini numerici, al femminile. Tra le attività di ricerca del progetto rientra anche l’elaborazione, l’approfondimento, l’attualizzazione dei risultati di una ricerca già conclusa nell’ambito del progetto GROW (Gender Representation Opportunities for Women) da parte di Adele Pesce per Enaip Emilia Romagna e che ha analizzato alcune delle nuove professioni emergenti connesse alle tecnologie ICT, dove le giovani donne sono sempre più numerose le giovani donne.
L’analisi questo duplice processo (da una parte, il passaggio al postfordismo con tutte le caratteristiche essenziali – i cambiamenti apportati dalle tecnologie IC, la flessibilizzazione del mercato del lavoro, l’emergere di forme di lavoro atipico e precario, la crescita dei servizi, ma soprattutto l’entrata della relazione e dell’intersoggettività nei modelli di efficienza produttivi – e, dall’altra, il processo di femminilizzazione del lavoro – sia nel senso quantitativo che qualitativo), (im)pone una domanda: ha ancora senso la distinzione tra sfera pubblica-produttiva-maschile e tra sfera privata-riproduttiva-femminile che per secoli ha conferito le basi sociali a un modello esistenziale?
Di questo mutamento in atto, privilegiato testimone e, soprattutto, primo motore, è stato il movimento delle donne e il femminismo storico, che hanno dato voce a istanze di rottura nei confronti di questa divisione attraverso la nota denuncia che ha iniziato a svelare il nesso inestricabile tra “personale” e “politico”. Un nesso, quello tra personale e politico, che sembra oggi tornare ad essere visibile in quello, altrettanto inestricabile e ad esso connesso, tra “personale” e “economico”. A trent’anni di distanza dall’entrata ufficiale delle donne nelle sfere pubbliche-produttive e dal femminismo storico, è doveroso allora cercare di riflettere sulla domanda che si è posta – siamo oggi in una fase di superamento della distinzione tra produttivo-maschile/riproduttivo-femminile? – cercandone le risposte attraverso altre domande: che collocazione hanno le donne in questo contesto socio-economico in mutamento? E’ proprio vero che i nuovi scenari descritti dal cambiamento verso il postfordismo e a partire dalla femminilizzazione del mercato del lavoro e del lavoro stesso sono a favore delle donne? E quali rappresentazioni abbiamo di questi cambiamenti?
Le ricerche di Equal “Portico” si sono inserite in questo contesto, indagando diversi aspetti, offrendo risposte e riflessioni, e focalizzandosi, in particolare, su due parti che compongono questo cambiamento: da una parte, la collocazione delle donne nel mercato del lavoro delle tecnologie IC, dall’altra le loro rappresentazioni nell’immaginario attuale.
Della prima indagine si sono occupate Alessandra Giovagnoli e Valeria Ardito del dipartimento di Scienze Statistiche, concentrandosi sullo studio di un caso specifico, ovvero le aziende del settore ICT nella provincia di Bologna. Della seconda indagine si sono invece occupate Crisitina Demaria, Barbara Fenati e Nora Rizza del dipartimento di Discipline della Comunicazione che hanno guardato alle attuali rappresentazioni di genere attraverso una lente privilegiata nella nostra cultura, i media televisivi e radiofonici, “spazi sociali in cui”, cito Cristina Demaria, “circolano valori e vengono ribaditi modelli di genere”, veicoli dunque di rappresentazioni e immaginario collettivo.
Nella mia ricerca per l’Associazione Orlando, ho cercato di offrire alcune riflessioni, problematizzando (o solo svelando l’ambiguità) del cambiamento in atto in due modi. Prima attraverso alcune interviste rivolte ad un gruppo di intellettuali e teoriche che hanno riflettuto e teorizzato sul lavoro a partire da uno sguardo attento alle donne/femminista/di genere, poi, con altre interviste ad alcune donne che lavorano in diversi settori delle tecnologie IC particolarmente sensibili alle tematiche lavorative-esistenziali che le riguardano e cercando di cogliere le loro esperienze, le loro opinioni, le loro autorappresentazioni e rappresentazioni.
Le prime interviste sono stati utili per rimettere in discussione le categorie oggi impiegate per descrivere queste trasformazioni: “postfordismo”, “flessibilità del mercato del lavoro”, “femminilizzazione del mercato del lavoro e del lavoro”, “precarizzazione e atipicità del lavoro”. Categorie, come è emerso nella prima fase di ricerca, molto spesso utilizzate per descrivere un quadro socio-economico e esistenziale neutrale, in cui l’entrata delle donne nel mercato del lavoro, la cosiddetta “femminilizzazione”, viene inserita tra i vari elementi, ma non sufficientemente approfondita a partire dallo sguardo critico femminile-femminista.
Sul processo di femminilizzazione in atto, anche solo a partire dalla sua accezione quantitativa (aumento di presenza) ci si accorge dei numerosi limiti che questo termine incontra, anche solo ricordando le numerose discriminazioni e segregazioni che ancora oggi ostacolano le donne nell’accesso al mercato del lavoro e nei loro percorsi di carriera: quelle orizzontali, verticali, salariali, contrattuali. Sono noti i fenomeni già ampiamente studiati e documentati a livello europeo come le forbici delle carriere, il soffitto di cristallo, ecc. Mi soffermo solo sulle discriminazioni contrattuali in relazione al processo di femminilizzazione, citando una frase che mi ha colpito del sociologo tedesco U. Beck: “femminilizzazione precaria del lavoro non significa oggi l’integrazione delle donne nel lavoro regolamentato, ma l’integrazione degli uomini nel lavoro non regolamentato delle donne”. E infatti le forme di lavoro atipico non riguardano solo le donne giovani, ma anche gli uomini. Forse oggi se ne parla di più, divenendo un tema socialmente visibile, proprio perchè riguarda gli uomini e non più solo le donne?
Dalle interviste sono emerse numerose problematiche, temi, e nodi critici di grande interesse. Li cito velocemente e mi soffermo su alcuni tra i più interessanti: la flessibilità nella vita delle donne e l’alto grado di involontarietà di questa scelta; il nesso tra flessibilità e precarietà che più che essere una novità per la vita e il lavoro delle donne è un tratto di continuità perchè le donne hanno da sempre lavorato in modo flessibile e precario; il doppio volto della flessibilità tra grave perdita di diritti di cittadinanza, soprattutto per le più giovani coinvolte in forme di lavoro atipico e autonomo di seconda generazione, e libertà (il lavoro autonomo di seconda generazione è senza vincoli verso il basso, ma anche, almeno formalmente, verso l’alto); i problemi che si annidano dietro la relazione tra postfordismo e femminilizzazione, in particolare nel contesto del welfare italiano; il confronto generazionale sulla “doppia presenza” (quella che le donne hanno dovuto sempre praticare tra lavoro e famiglia) che per alcune è oggi superata dalle più giovani generazioni, per altre si tratta di un conflitto del tutto interiorizzato; il nesso tra femminismo storico, lavoro e condizioni di vita delle donne di cui è stata indicato il vuoto di pratiche e riflessioni femministe. Pratiche e riflessioni che, a mio avviso, stanno riemergendo attraverso le vite atipiche e precarie delle giovani generazioni, da cui io credo il passaggio è un nuovo nesso oggi: il personale è economico.
Un tema di rilievo emerso è anche quello che riguarda il divenire femminile del lavoro, femminilizzazione come entrata nella sfera produttiva di valori “altri” rispetto a ciò che per molto tempo ha contato come razionalità produttiva (relazione, soggettività in primo luogo): anche in questo caso il termine non indica un processo unicamente positivo, nemmeno negativo forse, ma quantomeno ambiguo. Come spesso sottolinea Adriana Nannicini quando parla di una crescita di distanza tra “condizioni di lavoro e contenuto di lavoro”, le capacità di tessere relazioni, l’attenzione al contesto, allo scambio di cui le donne hanno una lunga pratica può essere un limite e non necessariamente un fattore positivo per le donne. Questo aspettova infatti ad aumentare la difficoltà di riconoscere il contenuto del lavoro, ciò che è lavoro da ciò che non è lavoro, l’attenzione all’efficacia e alla finalità. E questo è vero particolarmente per tutti i lavori autonomi di seconda generazione, nei quali, non solo i tempi di vita e tempi di lavoro vanno assottigliandosi, perchè il tempo di lavoro non è più garantito e definito, quindi non riconosciuto, ma ciò che è produttivo non è più nettamente distinguibile da ciò che è non è produttivo. Perchè, lo ricordo nuovamente, ora ciò che è relazionale, personale, “femminile” è parte della razionalità produttiva. Per le donne, e anche per gli uomini, questo ha una ricaduta effettiva sulle loro vite: come si collocano i tempi (direbbe Antonella Picchio) per la riproduzione di altri e di sé, del corpo, delle emozioni, degli affetti, dello spirito? E anche guardando ai termini spaziali dei questo assottigliamento (il telelavoro per esempio): siamo innanzi a un ritorno del lavoro a domicilio?
Ci troviamo di fronte, a mio giudizio, a un ribaltamento: più che un personale che è economico siamo innanzi a un economico che è sempre più personale. E il fatto che il lavoro e l’economico inglobino ogni cosa, anche “il femminile”, significa che la sfumatura tra i confini può annullare tutto ciò che è vita al di fuori del lavoro. E per le donne, come ho rilevato tra le intervistate del secondo gruppo, in particolare quelle più giovani, il lavoro (l’economico) sta diventando fonte primaria di identità e risorsa per sé, per di più costantemente messa a rischio, in un rischio che non è più collettivo e negoziabile pubblicamente, ma che diventa individualizzato, senza tutele, senza norme. In questo senso, quindi, una prospettiva femminista che guarda al nesso tra personale e economico, e dunque tra riproduttivo e produttivo, oggi può tornare ad essere ancora più visibile, efficace, necessaria visto che riguarda le vite di moltissimi e moltissime nel cambiamento in atto.
E qui passo, molto brevemente, al secondo gruppo di intervistate, una quindicina di donne con le quali le riflessioni critiche e teoriche emerse nelle interviste alle teoriche hanno trovato uno spessore materiale, concreto attraverso alcuni frammenti di vita/lavoro. Delle possibili letture interpretative del vasto materiale raccolto, una ha acquisito un certo rilievo critico: quella che si articola a partire da una diversa collocazione generazionale. Da questa prospettiva, mentre alcuni temi sono emersi come ricorrenti e comuni in tutti i percorsi di vita professionale (per esempio la centralità delle tecnologie IC, la passione per il lavoro, il piacere per la comunicazione e per la relazione), altri temi come la flessibilità, la precarietà, la libertà, i tempi di lavoro e i tempi di vita, hanno assunto significati specifici e di rilievo, differenti in relazione a due diverse fasce d’età, l’una comprendente donne con meno di 45 anni di età, l’altra donne con più di 45 anni di età.
In particolare, un aspetto di un certo spessore critico ha acquistato una valenza generazionale importante rispetto al lavoro e alla perdita di diritti in un contesto in cui la società va individualizzandosi e femminilizzandosi. Si tratta della ambiguità con cui si pone la flessibilità al lavoro: tra precarietà e libertà. Molte delle intervistate, in particolare quelle di età inferiore ai 45 anni, hanno mostrato uno spiccato amore per la libertà lavorativa e hanno individuato delle grandi potenzialità nelle nuove forme di lavoro: forme di lavoro che, pur non avendo vincoli verso il basso (tutele), non ne hanno neanche, per lo meno in via di principio, verso l’alto. Così anche il lavorare a casa, in senso individuale, l’avere il proprio tempo per la propria autogestione sono stati raccontati come elementi positivi, di apertura al cambiamento e declinati in termini di libertà, soprattutto individuale. Allo stesso tempo però, accanto al termine libertà il termine “precarietà” (non solo economica, ma prima di tutto esistenziale, che ha a che fare con l’impossibilità di progettare il futuro, e anche il presente, con il senso del rischio scaricato su sé stesse, sull’assenza di tutele e diritti) è risultato quantomeno ambiguo se posto vicino alle aspirazioni libertarie.
Che libertà può esserci, si potrebbe dire, se non quella declinata al negativo in questi percorsi di vita professionale in cui i tempi di lavoro non sono più determinabili, in cui i tempi di vita si ristringono al minimo? In questo senso acquistano spessore le parole di Antonella Picchio, che lascio qui come riflessione aperta: siamo oltre la doppia presenza, la costrizione storica a cui sono state poste di fronte le donne tra lavoro e famiglia, ma anche tra lavoro e spazio/tempo per sé, per la cura di sé, per le emozioni, il corpo e lo spirito…oppure non siamo nemmeno consapevoli della perdita e abbiamo interiorizzato questo conflitto?
(Articolo tratto da Porticodonne) Leggi anche: Le ricerche del progetto EQUAL Portico