All’indomani della riuscitissima manifestazione romana, con NON UNA DI MENO c’erano almeno 150mila persone, la «Lettera aperta ai direttori responsabili delle testate giornalistiche italiane, dopo le manifestazioni di ieri 24 novembre» pone la fatidica domanda «Ma voi, di noi, vi siete accorti?». I direttori, anche le giornaliste che ricoprono questo ruolo, non ce la fanno a scrollarsi di dosso la cultura professionale maschio-centrica di tutto il giornalismo italiano. Al di là di questa accusa fondata su statistiche che rilevano quanto e quando il giornalismo non ha attenzione per le donne di questo paese, ritengo che sia utile leggere il libro di Saveria Capecchi «La comunicazione di genere. Prospettive teoriche e buone pratiche», una fonte preziosa di teorie femministe, di teorie dei media, di documentazione e di statistiche. Perché almeno noi possiamo tentare di rispondere alla domanda perché «i direttori» non si sono accorti di avere una notizia? Perché le hard news – in gergo giornalistico le notizie in primo piano, quelle di politica interna ed estera, eventi straordinari etc. – hanno in maggioranza firme maschili e, sabato, faceva più notizia la protesta dei giubbotti gialli francesi. I media mainstreaming hanno preferito volgere lo sguardo all’estero. Nella geometria editoriale, la protesta delle nuove femministe italiane forse rientrerà fra le soft news quelle che non richiedono tempestività nella comunicazione e che riguardano tematiche più “leggere”, come ad esempio approfondimenti di costume, fatti di cronaca rosa, curiosità.
Anche di questo parla il saggio uscito per Carrocci, scritto con l’intento della chiarezza espositiva, è il libro di una accademica – insegna Sociologia della comunicazione all’Università di Bologna – che fa vanto della divulgazione presso il grande pubblico di concetti e categorie che oggi vanno per la maggiore nel dibattito in corso sul rapporto media e genere. «Mentre parliamo veicoliamo inconsapevolmente stereotipi sulla condizione delle donne. Quando leggiamo articoli sulla stampa e guardiamo la tv interiorizziamo posture mentali che giustificano la discriminazione sessuale.» Il saggio chiama in causa sia le giornaliste sia i giornalisti, che siano posizionati ai vertici o meno, invitandoli ad una revisione sistematica di tutte le fasi produttive dell’informazione. Proponendo loro e a tutti coloro che si occupano di comunicazione pubblica e di impresa di cambiare prospettiva per includere un’informazione a più voci, più democratica, più rispettosa delle donne e delle comunità LGBTQIA. È nella scelta delle notizie del palinsesto, nella conduzione delle interviste, nella regia, nel montaggio che il mutamento può fare la differenza. Fondamentale uscire dai modelli stereotipati e dai compartimenti stagni della «madre», «casalinga», «bellona» «donna in carriera» per far emergere l’immagine complessa di una soggettività non più ancorata esclusivamente al corpo ma dotata di intellettualità, di creatività.
Insieme all’analisi critica dell’odierno sistema dell’informazione, il saggio dedica ampio spazio a fenomeni culturali tipici di questi anni. Womenomics, diversity managment e femvertising. Termini inglesi, oramai comuni nel linguaggio di genere diffuso nella cultura e nelle politiche che favoriscono la valorizzazione della compagine femminile. Sembrano indicare il superamento del simbolico maschilista nell’economia, nell’organizzazione aziendale e nella pubblicità. La teoria della Womenomics, crasi tra la parola women e economics, assegna sempre più importanza alla rappresentanza femminile nel mercato del lavoro che ne vede un enorme potenziale di sviluppo. I passaggi, per Capecchi, sono «Migliori politiche sull’occupazione basate sul concetto di “pari opportunità” portano a una crescita del tasso occupazionale femminile, che porta a una crescita del reddito, che porta a una crescita demografica e dei consumi, che portano a una crescita degli investimenti, che porta alla crescita del PIL e del benessere aggregato». È nelle maglie della descrizione di questi passaggi che emerge il punto di vista critico che ci accompagna in tutta la lettura del libro. Mancando le politiche sociali di supporto all’infanzia e agli anziani, il famoso work-life-balance è sfavorevole alle donne e il cambiamento non può essere solo di natura economica, il cambiamento potrà avvenire solo a seguito di un profondo mutamento socioculturale che coinvolga maggiormente la componente maschile. Certo si parla di diversity managment, le aziende fanno propri i temi dell’inclusione e della gestione della diversità culturale, ma il libro, riportando anche ricerche sulla responsabilità sociale dell’impresa svolte presso imprese italiane, registra il perdurare della diseguale distribuzione della responsabilità di cura fra uomini e donne.
E ancora, il recente fenomeno del femvertising (pubblicità femminista) è vero mutamento socioculturale? Per intercettare le nuove generazioni di donne emancipate che rifiutano di identificarsi nella donna-oggetto, le nuove tecniche di marketing attingono dalle lotte dei movimenti politici delle donne, ne scimmiottano gli slogan e gli intenti per scopi commerciali. Pubblicità, di prodotti di bellezza che promuovono ideali di bellezza «al naturale», e pubblicità, di prodotti di abbigliamento che valorizzano taglie forti, donne palestrate e soprattutto donne diversissime per età, razza e orientamenti sessuali (transgender, lesbiche), sembrano promuovere un immaginario da «femminismo pop», leggero, alla portata di tutte a patto che siano consumatrici dei prodotti delle aziende. La consapevolezza del proprio valore si acquisisce da pratiche di libertà che spezzano catene di dipendenza, questo è l’apporto dei femminismi. Il femvertising, tipico del post-femminismo mediatico, spezza l’incatenamento della donna agli usi e costumi tradizionali ma, attenzione, alla nuova catena della coazione al consumo di oggetti rappresentativi di nuovi status-symbol.
Piace l’immagine del «femminismo pop», leggero, alla portata di tutte, non piace l’accusa di complicità con il neo-liberismo mossa al femminismo del novecento.
Note
Le illustrazioni sono di Camila Rosa (Brazilian illustrator and artist) approfondimento in Il bello della diversità nelle illustrazioni di Camila Rosa.