Le donne della Cina contemporanea fanno i conti con il cosidetto “femminismo di stato” istaurato oltre 60 anni fa dal regime comunista e governato l’All-China Women’s Federation (ACWF), nel 1949 il Partito aveva infatti creato quella che, a tutt’oggi, è l’organizzazione ufficiale della Repubblica Popolare Cinese per la salvaguardia dei diritti delle donne e la promozione dell’uguaglianza di genere.
La retorica maoista ha sempre immaginato l’emancipazione femminile come una liberazione attraverso il lavoro. Per la prosperità della nazione, la liberazione della donna era necessaria e negli anni “50 un’equa partecipazione delle donne nella società e nell’economia fu una assoluta priorità. E così fu fondamentale la legge sul matrimonio del 1950, con cui vennero abolite pratiche feudali come il matrimonio forzato e il concubinaggio, e vennero garantiti alle donne diritti come quello di proprietà, di avviare le pratiche per il divorzio e di mantenere il proprio cognome da nubile anche dopo le nozze. Al partito, la liberazione della donna, servì innanzi tutto per compiere il “Grande balzo in avanti”: se l’URSS di Stalin in dieci anni era riuscita a risollevare le sorti dell’Unione Sovietica del dopoguerra, la Cina ci sarebbe riuscita in due. La liberazione fu pagata a caro prezzo: costrinse milioni di donne al durissimo lavoro nei campi controllate da donne dell’ ACWF, diremmo noi, negazioniste, che dovevano rispettare i tempi della rivoluzione. Molte morirono di fatica e la “grande carestia” risultato del fallimento del “grande balzo in avanti” dovrebbe essere raccontata anche dalle le loro figure; impressionante l’altissima percentuale di donne che si ammalarono e divennero infertili .
Le cose non andarono meglio per le donne cinesi nemmeno durante la “Rivoluzione culturale” delle Guardie Rosse degli anni “80 e nonostante il rilievo a loro riservato nel testo del Libretto di Mao. La Cina di Deng Xiaoping con le sue riforme di mercato complicarono ulteriormente il ruolo della donna cinese: gravi discriminazioni, tra cui il licenziamento senza giusta causa e il pensionamento anticipato erano all’ordine del giorno nell’economia progressivamente liberalizzata e mantenuta dal simbolico patriarcale con i suoiu rigidi ruoli famigliari,del nuovo pseudo comunismo cinese degli anni “70 e che il femminismo marxista statale impediva di criticare.
Da allora e da più parti si parla di una lenta, ma continua regressione della posizione socio-economica delle donne cinesi: oltre al divario salariale, violenza domestica, molestie sessuali sul luogo di lavoro e traffico sessuale sono questioni attualissime nella RPC, di fronte alle quali il femminismo marxista statale non solo è anacronistico ma è un potente strumento di controllo sociale soprattutto sulle donne. Ogni Consiglio del popolo ha una rappresentante dell’ ACW e, in gioco all’infinito, di gerarchie di potere contribuisce a educare e a forgiare un identità femminile di quasi totale sottomissione al volere altrui.
E’ da questa memoria storica che le attiviste politiche sono state apertamente voci di cambiamento nella società. Il loro numero include le madri Tiananmen, che chiedono ancora di sapere esattamente cosa è successo il 4 giugno 1989, data di una sanguinosa repressione delle proteste a favore della democrazia a Pechino.
Allo straniero che chiede ai cinesi del loro millenario passato essi rispondono che, in realtà, non ne sanno molto: la loro giovinezza è stata solo piena di Mao, il loro presente solo pieno di tecnologia e lavoro.
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